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Coni di Luce

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Sono Coni di Luce, i passaggi vitali di ogni creatura esistente.

Da principio è la nascita, quando lo spazio si dilata irrompendo in una dimensione luminosa, sconosciuta, percorrendo direttrici che si allargano alla Vita.

Sono Coni di Luce, o coni d’ombra, anche i passaggi di stato, le tappe decisive in cui svoltiamo dal percorso, siano esse scelte o circostanze, grazie ai quali rischiamo di perderci, tentiamo di ritrovarci. Le vittorie, le sconfitte.   Le gioie, le amarezze.   Le decisioni, le esperienze, i sentimenti. Nessun passaggio è indolore, neanche quelli che ti portano a un livello più alto: più alto almeno per gli sguardi di tutti gli altri.

E’ un elenco di momenti, lungo come un’Esistenza, che si susseguono fino all’ultimo, la morte: in quell’attimo supremo il Cono di Luce inizia ampio, poi si chiude poco a poco fino all’ultimo sguardo, all’ultima goccia prima del buio.

E’ il pomeriggio di un giorno di gloria, lungo il Cono di Luce azzurrissima tra Nizza e Savona.  

Il sole si specchia sulla coda di alluminio di I-ELCE, il FIAT G-212 dell’A.L.I.: niente fa pensare ad altro che non sia un tiepido ritorno a casa, un morbido tuffo in quella primavera placida di promesse.

Il comandante Gianluigi Meroni vede il punto di riferimento e vira a sinistra, sul colle di Cadibona; il sole dilaga all’improvviso dai finestrini di sinistra, è un sole anch’esso giunto quasi al termine del suo viaggio.

L’aereo si lancia tranquillo sulla dirittura d’arrivo, si dirige verso un languido, soffuso ritorno a casa.

Sono le 16,36 del 4 Maggio 1949.

Ma questo Cono di Luce si stringe sulla sua crudele, ispida estremità: si chiude intorno al cielo sopra Torino, come le spire di un immenso serpente intorno al collo della sua vittima, ignara.

Il tempo è cambiato in pochi minuti: quel sole al tramonto è fuggito per sempre, inghiottito da nuvole troppo basse, bagnato da miliardi di lacrime di pioggia.  Non bastano le raffiche di Libeccio, a lasciare un po’ di visibilità, a portare in salvo uno spicchio di speranza.

La voce si spegne per l’ultima volta, con il click della radio, alle 16,59: “Siamo a duemila metri di quota.  QDM su Pino Torinese, poi tagliamo su Superga.”

Il Destino è nascosto dietro due numeri, entrambi sbagliati.   290°, la rotta per la pista dell’Aeritalia, e i duemila metri di quota, visti solo dagli strumenti.

Il forte vento trasversale schiaccia l’ala sinistra e spinge l’aereo verso nord, dove c’è l’unico pericolo di rilievo presente nella zona.  La nebbia è un sipario crudele, che impedisce di vedere il terreno, drammaticamente più vicino, lì, solo a un soffio dal cielo.   Forse un guasto all’altimetro.

Non c’è modo di uscire dal Cono d’Ombra del Destino.

Sono le 17,03 e la storia, una gran fetta della storia, calcistica e non, del nostro drammatico dopoguerra, si trasforma in un Cono di Luce abbacinante.

Solo il Tempo di un lampo.

E il Grande Torino ha cambiato dimensione per sempre.

«Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto “in trasferta”.» (I. Montanelli)

E’ una Storia di passione, il Torino, una storia d’Amore.

Amore per lo sport, per la vita che ricomincia a rifluire nel cuore di una Nazione distrutta, di Amore per il lavoro, per le cose fatte con calma, fatte bene.   Alla Piemontese: a bassa voce, per non disturbare.

Ma è una Storia che passa i confini immaginati dal suo stesso ideatore, che va oltre: il Grande Torino dilaterà il proprio Cono di Luce finendo con l’incarnare i sogni di un’Italia piegata, annientata, sublimando i campanilismi e le divisioni, risollevando, insieme a Coppi & Bartali, l’immaginario di un popolo fuori dalla tragedia, su fino ai cancelli della Speranza.

E’ una Storia di passione, il Torino, una storia d’Amore.

A scriverla ci pensa un uomo, un giovane industriale della cintura torinese, che subentra – nell’estate del 1939 – allo stanco Giovan Battista Cuniberti: il suo nome(n Omen) è Ferruccio Novo.

E’ Granata dentro, Ferruccio Novo.   E ha idee, ambizioni.  Ha strumenti.   Non ha tempo da perdere, e non ne perde.   Affida al fratello l’azienda di famiglia e si butta anima e corpo nel Torino: si consegna completamente, senza tenere nulla per se stesso.

Costruisce per prima la squadra dirigenziale, adotta il modello dei padri fondatori, gli inglesi, sbircia la più organizzata Juventus, non ha paura di delegare ai collaboratori chiave, anche se poi decide sempre di testa sua.   Si circonda del meglio, perché aspira al meglio.  

Forse ancora non riesce a immaginare “Il Grande Torino”, ma di sicuro vuole fare un Torino grande.   Un passo alla volta.

Inizia da Franco Ossola, un brillante diciottenne che sbarca a Torino quando la guerra è ancora una notizia al giornale radio.  Poi si districa negli anni del conflitto, e un po’ per volta assembla la squadra, quella che va in campo, scegliendo anche qui il meglio, riconosciuto come tale da lui e dai suoi osservatori.   Arrivano il portiere Bodoira, Borel II e Gabetto dalla Juventus; Menti dalla Fiorentina, Ferraris II dall’Ambrosiana-Inter.  

Il Torino arriva secondo, a causa di una sconfitta a Venezia che consegna lo scudetto 1941/42 alla Roma.

Novo non si ferma: anticipa la concorrenza e si porta a casa la coppia terribile dei lagunari, che gli hanno sottratto il primo titolo.   Ezio Loik e soprattutto Valentino Mazzola prendono la via per Torino.  Già che si trova da quelle parti, il presidente si porta a casa anche Grezar, il forte mediano della Triestina.  

Il Grande Torino forse ancora non lo sa, ma è praticamente pronto.   Ad allenarlo ci penserà l’Ungherese András Kuttik, che traghetterà la squadra dal “Metodo” al “Sistema” impostandone l’assetto definitivo.  

Sarà una stagione altalenante e combattuta – niente di strano, è il Toro – ma alla fine la squadra dilaga, ottenendo il “Doublete” Campionato e Coppa Italia, un trionfo che non ha precedenti.  E’ il maggio del 1943.

Il calcio convive dunque con la guerra.   Sembra inconcepibile, a vederlo da adesso, a osservarlo da qui.

In una nazione da sempre brava ad arrangiarsi, anche i presidenti delle squadre trovano un escamotage, col beneplacito degli organi Federali, per salvaguardare i giocatori: la loro affiliazione quali operai nelle industrie necessarie allo sforzo bellico (la FIAT per i Torinisti, la Cisitalia per i cugini bianconeri).

Si capisce come l’esperienza finisca col cementare lo spirito di squadra, e magari possa anche mantenere alla giusta distanza, poco più di zero, gli atleti dalle persone comuni, dai tifosi.  Si vive – tutti – di espedienti.

Alla fine, però, bisogna comunque prendere atto della situazione.  Dopo l’8 Settembre la penisola è fisicamente spaccata in due, e anche se i bombardieri alleati cambiano bersagli, allontanandosi gradualmente dalle città industrializzate, risulta impossibile, e forse inutile, proseguire come se nulla fosse.  Il cosiddetto Campionato di Guerra viene organizzato per gironi, e non porterà, alla fine, all’assegnazione dello scudetto.

Se ne riparla nel 1945/46: il campionato è spezzato in due come l’Italia stessa – guarda un po’ se il calcio non è davvero la metafora della vita – ma il Toro è rimasto compatto, più coeso di prima.

I ragazzi dati in prestito rientrano alla base, e a loro si aggiungono Valerio Bagicalupo, Aldo Ballarin ed Eusebio “Zampa di velluto” Castigliano: serviva potenziare la difesa.   Ecco fatto.

Il Toro era già la squadra più forte, e si è rinforzato ancora.   Punta deciso allo scudetto.   E lo vince.

Non serve nemmeno rinforzarla ancora, quella squadra.   Non vi sono nuovi giocatori, se si eccettua il ritorno di bomber Menti dopo tre anni di peripezie.  

Lo scudetto 1946/47 sembra scivolare naturalmente al suo posto, come una sciabola nel suo fodero, alla fine della battaglia. Bastano centoquattro goal per ottenere ventotto vittorie su trentotto partite, per mettere insieme dieci punti di vantaggio sulla seconda, la Juventus.   Primo e quarto, Mazzola e Gabetto, in classifica cannonieri.

Così fanno tre titoli nazionali.  Consecutivi.

Il Cono di Luce non smette di avvitarsi su se stesso, ma nel farlo si tinge d’azzurro.

Forse nulla poteva distrarre dall’incubo meglio del Grande Torino e dei due campionissimi del ciclismo, o forse poteva un’unica creatura: ancora più inclusiva, più unitaria, ancora più Italiana, perché è di tutti gli Italiani.  

La Nazionale di calcio.

E’ il 27 Aprile del 1947.  Una domenica.  Lo stadio comunale di Firenze, laddove è nato l’antico calcio all’italiana, è pieno in ogni ordine di posti.  

Si gioca a dare un calcio al passato: Italia-Svizzera, una partita quanto mai amichevole.

Nove undicesimi della formazione sono rappresentati da giocatori del Torino: solo Sentimenti, il portiere, e Parola, il roccioso mediano, entrambi della Juventus, sottraggono ai Granata un altro primato assoluto, insuperabile.   La partita finisce 5-2 per l’Italia.   Il vecchio Vittorio Pozzo sorride.  Lui lo sa, come si fa.

Una gioia forse effimera, ma identitaria, consolatoria, a cavallo tra Granata e Azzurro.   Tra incubi incancellabili e nuovi sogni.

La stagione 1947/48 scivolerebbe via come un aeroplanino di carta nel vento, se non fosse che, grazie all’inedito formato a ventuno squadre, fu la più grande e più lunga edizione del campionato di serie A che gli annali riportino.   Finì addirittura il 27 Giugno, ma solo per il Toro che riposò all’ultima giornata.

Altrimenti non verrebbe nemmeno da sollevare le sopracciglia, nel leggere i nuovi numeri di quell’annata davvero irripetibile.  Il Torino trionfa, va in goal centoventicinque volte, incassa solo trentatré reti, vince ventinove delle quaranta partite, mette insieme sessantacinque punti, sedici di vantaggio sulle seconde.

Vale la pena praticamente solo ricordare le quattro squadre che al Toro riuscirono a imporsi: Bari, Bologna, Atalanta e Milan, tutte nel girone d’andata.   Quattro, come i Granata in doppia cifra per goal segnati.

Inizia con sei vittorie nelle prime sette partite, l’annata 1948/49.  Sfruttando un calendario abbordabile, i Granata di Mister Lievesley vanno a far visita al Milan, il 4 novembre del ’48, da primi in classifica, un punto sopra la sorprendente Lucchese di Gipo Viani: troveranno a San Siro una delle tre sconfitte stagionali.    E torneranno a Milano nuovamente sei mesi dopo, da capolista, ospiti dell’Inter seconda a quattro punti: un grigio, triste 0-0.  E’ il 30 aprile 1949, quindicesima di ritorno.  La loro ultima apparizione in Italia.

Poi entra in gioco l’amicizia, la solidarietà, la generosità per un collega nel momento del suo addio al calcio.

E’ un Cono di Luce morbida, tiepida, l’Estádio Nacional di Lisbona, il 3 maggio del 1949.  

Dopo una vita da capitano, trascorsa fedelmente a lottare per la maglia, ma senza guadagnare i miliardi di oggi, Francisco Ferreira sorride felice; è bastata una chiacchierata con Valentino Mazzola, a Genova qualche mese prima, a margine di un Italia-Portogallo.   

Le società concedevano all’epoca ai giocatori importanti di portarsi a casa l’incasso di quelle amichevoli di fine carriera, come una sorta di liquidazione ma senza pesare sui bilanci societari.

Il Grande Torino è la squadra più forte del mondo, probabilmente; di sicuro la più forte d’Europa, lo stadio è pieno in ogni ordine di posti.

Sorride felice, Francisco Ferreira, mentre stringe la mano al Capitano degli Immortali, al lancio della monetina.   Sarà per entrambi l’ultimo sorteggio, l’ultima partita.

Come un segno del destino, sarà il primo giocatore arrivato a costruire il Grande Torino, Franco Ossola, a segnare la prima rete dell’incontro; sarà invece di Romeo Menti, il sigillo definitivo su questa strana partita: un goal, un calcio, come un Destino.   Di rigore.

Finisce 4-3 per il Benfica, e tutti si salutano felici, mentre il sole inizia lentamente a coricarsi alle spalle del maestoso stadio.   Come un arrivederci a presto.

Un arrivederci alla Vita.

Il Cono di Luce si sta preparando ad accogliere il Grande Torino.   A trasportarlo verso l’Infinito, verso l’Immortalità.   Verso la Memoria Eterna di una Nazione, e del popolo del Calcio.

Lo attende alla Basilica di Superga.  Non c’è modo di uscire dal Cono di Nebbia del Destino.

Solo il Tempo di un lampo.

E il Grande Torino ha cambiato dimensione per sempre.

Roberto “Alter Ego” Monleone

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